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Volontari… vecchi e nuovi

Sempre più, in questi giorni, si assiste al fenomeno di persone che si mettono a disposizione per tentare di alleviare, con la propria opera, le difficoltà e i problemi che taluni incontrano nella vita quotidiana per situazioni di particolare fragilità.

Queste persone, spesso, offrono il loro impegno andando ad ingrossare le fila degli Enti del Terzo Settore che, sul territorio, si occupano permanentemente delle singole problematiche e, perciò, da questi Enti vengono “arruolati” in qualità di “volontari”.

A questo proposito richiamiamo l’attività svolta dal nostro Centro Servizi per orientare all’operatività in un Ente di Terzo Settore le persone al Centro stesso si rivolgono per manifestare la propria disponibilità – vedi sezione “vuoi fare il volontario?” del nostro sito a questo link.

Altrettanto spesso, però, alcuni esercitano questo slancio di solidarietà in termini individuali e diretti, senza appoggiarsi a un’organizzazione. Sono anch’essi “volontari” nel senso giuridico del termine? O, più semplicemente, sono persone generose che offrono gratuitamente la propria opera a beneficio degli altri?

Per rispondere a questa domanda occorre esaminare l’attuale normativa in materia e confrontarla con quella “consolidata” (anche se ormai superata dalle disposizioni già applicabili del Codice del Terzo Settore).

Storicamente nel nostro Paese la definizione di “volontario” aveva più una valenza sociologica che non una definizione giuridica. Quest’ultima, infatti, attribuiva la qualificazione di “volontario” unicamente a coloro che compiono la propria opera “personale, spontanea e gratuita senza alcuno scopo di lucro, anche indiretto, e per esclusivi fini di solidarietà” all’interno di alcuni tipi di organizzazione. Erano, cioè, figure espressamente previste da normative “speciali” che regolano alcune tipologie di Enti del Terzo Settore. Si tratta della legge 266/91 (organizzazioni di volontariato), 383/2000 (associazioni promozione sociale), 381/91 (cooperative sociali), 49/87 (ONG di cooperazione internazionale, con un’accezione un po’ “ibrida”), 157/92, 189/2004 (volontariato ambientale) ecc.

Un concetto comune, perciò li contraddistingue: il volontario è colui che opera volontariamente e gratuitamente all’interno di un’organizzazione.

La Riforma del Terzo Settore ha introdotto però (e formalizzato) un’interpretazione più allargata della definizione di “volontario”.

L’articolo 17 del Codice del Terzo Settore (dal titolo “volontario ed attività di volontariato”) definisce il volontario come “persona che , per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un Ente del Terzo Settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale spontaneo e gratuito senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà” .

Un avverbio (“anche”) che introduce il concetto che, al di là dell’appartenenza o meno ad un Ente del Terzo Settore, colui che opera gratuitamente a favore di altri per rispondere ai bisogni delle persone e della comunità “è” un Volontario. Si tratta di un allargamento al volontariato “liquido” che si affianca così a pieno titolo, nel riconoscimento giuridico, al volontariato organizzato.

Prescindiamo da ogni considerazione sulla maggiore efficacia dell’una e dell’altra forma di volontariato per segnalare, invece, come entrambe abbiano un ruolo essenziale, mai come in questo momento, per concorrere ad offrire una risposta solidale e altruistica ad un’emergenza senza precedenti e a garantire un supporto concreto e tangibile a coloro che, spesso, senza questa azione sarebbero ancora più emarginati e in difficoltà.

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Riforma del Terzo Settore ed “emergenza coronavirus”: facciamo il punto

Una delle domande che, in questo periodo di emergenza sanitaria, giunge ai nostri uffici è la possibile interferenza che tale situazione emergenziale può rappresentare per il compimento del processo di riforma del terzo settore da tempo avviato.

Per rispondere a questa domanda occorre preliminarmente “fare il punto” sullo stato dell’attuazione della riforma al momento in cui è esplosa l’emergenza.

Come noto, una parte dei decreti attuativi della L. 106/2016 sono stati emanati, mentre altri, anche di assai rilevante importanza, attendono ancora di esserlo. Fra questi ultimi vi è quello del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali destinato a “dettare le regole” per l’attivazione degli uffici regionali del RUNTS, e quindi determinarne l’operatività. Tale decreto, le cui bozze circolano fin dall’autunno scorso, necessita però di alcuni passaggi autorizzativi il cui iter è in corso e, al momento dell’inizio dell’emergenza, era dato di imminente pubblicazione.

Poiché i tempi previsti per l’attivazione degli uffici regionali del RUNTS sono di 180 giorni dall’emanazione del decreto, questo fatto consentiva di ipotizzare che verosimilmente si sarebbe raggiunta l’operatività del registro nei mesi di settembre-ottobre 2020 e, di conseguenza, da quel momento avrebbe avuto inizio la fase di “trasmigrazione” dagli attuali registri di OdV e APS.

Il timore che l’emergenza coronavirus ritardi, una volta di più, l’emanazione del decreto è tutt’altro che infondato e, non a caso, l’ulteriore dilazione dei termini per procedere all’adeguamento statutario – che come noto è operazione propedeutica alla citata “trasmigrazione” – ne è un segno piuttosto palese.

D’altro canto, il tenere entro breve (spesso affollate) assemblee per le modifiche statutarie è atto palesemente contrastante con le disposizioni per il contenimento del contagio impartite. Il possibile (probabile) “slittamento” dell’operatività del RUNTS ha, inoltre, un’ulteriore, rilevante, conseguenza sul piano fiscale.

L’art. 104 del Codice del Terzo Settore (che, come noto, è approvato e vigente dal luglio 2017) prevede l’entrata in vigore in tempi differenziati di alcune norme di carattere fiscale. Per alcuni articoli (77 “titoli di solidarietà”, 78 “social lending”, 81 “social bonus”, 82 “imposte indirette e tributi locali”, 83 “detrazioni/deduzioni per erogazioni liberali”, 84 c2 “esenzione IRES per i redditi da immobili delle ODV”, 85 c7 “esenzione IRES per i redditi da immobili delle APS”) le disposizioni si applicano dal primo periodo di imposta successivo al 31 dicembre 2017 (e quindi esse sono, al momento, applicate) mentre per altri (che, per la verità, sono quelli più importanti) le disposizioni introdotte si applicano “a decorrere dal periodo d’imposta successivo all’autorizzazione della Commissione Europea e, comunque, non prima del periodo d’imposta successivo all’operatività del RUNTS” .

Le disposizioni più rilevanti assoggettate a questo (doppio) vincolo sono quelle degli articoli 79 “disposizioni in materia di imposte sui redditi” e 80 “regime forfetario per gli enti del terzo settore non commerciali”. Sono cioè la vera essenza (fiscale) della riforma.

Prescindendo dalla autorizzazione della Commissione Europea (che, invero, non è ancora neanche richiesta) è ovvio che il superamento del 31 dicembre per l’attivazione del RUNTS genererà per l’anno prossimo (almeno) l’impossibilità di applicare in pieno la normativa fiscale introdotta dalla riforma ed il perdurare dell’attuale regime transitorio, con la presenza in “coabitazione” di normative “nuove” (i citati art. 77, 78 etc) e di norme “storiche”.

A tutto danno della “semplificazione”, uno degli obiettivi dichiarati della riforma. Non resta che augurarci che, anche sotto questo – secondario ma non irrilevante – aspetto questa emergenza che sta attraversando il Paese non arrechi troppi danni.

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Sospensione temporanea dell’incompatibilità tra status di lavoratore e di volontario

Il D.L. 14 del 9 marzo 2020 reca – fra le altre – l’espressa previsione di disapplicazione, per il periodo di durata dell’emergenza “coronavirus” (tale periodo, ai sensi della delibera del Consiglio dei Ministri del 31.01.2020, è da intendersi fino al 31.07.2020, salvo proroghe), delle disposizioni contenute nell’art. 17 del D. L vo 117/2017 (“Codice del Terzo Settore”).

Nello specifico, non si applica la disposizione per cui “la qualifica di Volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro, subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’Ente di cui il volontario è socio/associato o tramite il quale svolge la propria attività volontaria”.

Un principio cardine, ovvero “nessun rapporto patrimoniale fra chi fa il Volontario e l’Ente in cui opera” viene sospeso, per meglio fronteggiare l’emergenza causata dall’epidemia in corso, generando due conseguenze:

  • i Volontari possono intraprendere rapporti di lavoro con il proprio Ente, pur rimanendo Volontario;
  • un lavoratore può svolgere attività volontaria nell’ Ente in cui lavora.

Tale disposizione è applicabile alla generalità degli ETS (cui si rivolge l’art. 17 del C.T.S).

Ma ATTENZIONE: la norma non deve essere interpretata come possibilità di retribuire il Volontario in quanto tale ma unicamente come possibilità di contrattualizzazione dell’opera di una persona che agisce in qualità di volontario, senza che ciò ne faccia decadere lo “status”.

Un esempio: un soggetto che svolge l’attività di autista (volontario) in un ETS, vista l’esigenza di aumentare gli interventi di soccorso e trasporto, può – soltanto per il tempo in cui sarà riconosciuto lo stato di emergenza- essere contrattualizzato (ad esempio con un’assunzione a tempo determinato) senza che ciò gli faccia perdere la qualifica di Volontario. È indubbiamente un’inversione assoluta di un principio fondamentale del Volontariato su cui non esprimiamo alcun giudizio ma, in questo momento di emergenza, è stata ritenuta utile a concorrere a fronteggiarla.

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Fase 2: ripartire con prudenza

Fase 2, ripartire con prudenza. E’ la frase che, in questi, giorni, leggiamo e ascoltiamo con maggior frequenza. Soprattutto quando la “ripartenza” riguarda le attività degli Enti del Terzo Settore. Ma cosa significa, in concreto questa tanto auspicata prudenza?

Tutta Italia lo attendeva con diverse (qualche volta opposte) speranze: il 26 aprile il nuovo DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) ha visto la luce. È il decreto, in vigore dal 4 maggio al 17, che regola la “fase 2”, cioè quella che il Primo Ministro ha definito di “convivenza con il virus” e che, proprio per questo, contiene ancora numerose misure restrittive o comunque, “prudenziali”. Il timore, infatti, è che un ampio, integrale e immediato ritorno alla vita “prima del virus” possa generare pericolose recrudescenze del contagio e determinare, per il nostro Paese, il ritorno a drammatiche situazioni di epidemia.

Anche per le attività degli Enti del Terzo Settore, perciò, le “aperture” che si possono rinvenire analizzando il decreto sono piuttosto improntate a quel concetto di prudenza che – come detto – caratterizza il decreto. Questi Enti che, come sappiamo, oltre a produrre servizi e opportunità spesso essenziali per i cittadini, generano “relazioni” rappresentano, in tutta evidenza, un elemento particolarmente delicato in un momento in cui proprio le relazioni sociali (almeno quelle “classiche”) sono sottoposte a restrizione,

Ecco perché anche il DPCM del 26 aprile, al proprio articolo 1, esordisce con le “misure urgenti di contenimento del contagio” elencando prevalentemente una serie di limitazione e di divieti (gli assembramenti di persone, lo svolgimento di attività ludiche e sportive, la limitazione degli spostamenti, il divieto di manifestazioni, dell’attività di ristorazione e di somministrazione di alimenti e bevande) che spesso incidono, limitandole, sulle attività anche degli Enti del Terzo Settore. E che, nella sostanza, confermano le limitazioni tuttora in vigore.

Non esiste, perciò, uno specifico divieto a compiere attività di volontariato ma, nei fatti, le citate limitazioni le rendono pressoché impossibili da realizzare concretamente. Con importanti eccezioni, però.

Tutte le attività che non infrangono alcuno dei divieti (ad esempio servizi realizzati “a distanza”, azioni che non implicano la mobilità dei Volontari, ecc.) sono assolutamente legittimate, così come lo sono le attività nell’ambito della Protezione Civile o del soccorso sanitario. Anche in “fase 2” continuano a poter essere svolte (come in “fase 1”) le attività svolte nell’ambito dei servizi sociali, per soddisfare esigenze primarie di soggetti fragili e in condizioni di bisogno: distribuzione pasti, assistenza al disbrigo di pratiche essenziali, fornitura di farmaci, ecc. A questo proposito il richiamo al collegamento con i servizi sociali non è casuale. Proprio tale collegamento (peraltro indicato anche nelle norme regionali emanate) è elemento essenziale per garantire maggior efficacia e migliore “copertura” delle attività.

Naturalmente e indipendentemente dal tipo di azione condotta dai Volontari, devono essere rigorosamente rispettate le regole generali di comportamento (adozione di dispositivi di protezione, limitazione degli spostamenti, rispetto delle accortezze igienico-sanitarie, limitazione dei contatti) per la minimizzazione del rischio di contagio.

Oltre alla sostanziale conferma delle precedenti disposizioni per lo svolgimento dell’attività di volontariato, però, il DPCM del 26 aprile, prevede alcune possibili “aperture” (dirette e indirette) che andremo, di seguito, ad analizzare.

Viene introdotta la possibilità, per minori e persone non completamente autosufficienti, di svolgere attività sportiva o motoria all’aperto, anche con la presenza di un accompagnatore. E tale accompagnatore, ovviamente, può essere anche un volontario o altro operatore di un’organizzazione.

Ancora: l’articolo 8 del decreto prevede la possibile riapertura dei centri diurni per disabili. Questo fatto consente alle organizzazioni del terzo settore che operano a supporto di tali centri di riprendere la propria attività con due attenzioni: l’adozione delle solite precauzioni protettive e l’emanazione di un apposito piano territoriale, di cui si dovranno fare carico le Regioni. Riapertura sì, quindi, ma solo dopo che le Regioni avranno definito “dove, quando, come, chi” con un loro apposito piano.

In ultimo riferiamo di un altro provvedimento di possibile ri-apertura, introdotto dall’articolo 2 del decreto, che tratta le “misure di contenimento del contagio per lo svolgimento in sicurezza delle attività produttive, industriali e commerciali”.

Si tratta di un’interpretazione (molto dibattuta, per la verità) del 1° comma che recita “sull’intero territorio nazionale sono sospese tutte le attività produttive industriali e commerciali ad eccezione di quelle indicate nell’allegato 3” (al decreto). Questo allegato elenca i codici ATECO delle attività che, appunto, costituiscono l’eccezione al provvedimento di sospensione. Fra questi codici è presente anche il codice 94 che recita: “attività di organizzazioni associative”. Per molti, pertanto, tutte le organizzazioni associative (le associazioni, cioè) che riportano il codice attività “94” sarebbero escluse dalla sospensione delle attività e quindi legittimate alla loro continuazione (o ripresa). Si tratta di un’interpretazione che, per quanto da molti sostenuta, non ha ricevuto al momento alcuna conferma ufficiale e, pertanto, è da adottarsi con grande prudenza.

D’altra parte, la ricaduta reale di un’eventuale interpretazione in senso positivo è assai limitata. Infatti l’eventuale ripresa (o continuazione) dell’attività è subordinata all’adozione di misure indicate dall’allegato 6 al decreto che le definisce tramite un protocollo condiviso (fra Governo e le Parti sociali) di regolamentazione delle misure per il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro.

Le “organizzazioni associative” che, come abbiamo visto, riprendano (o continuino) la propria attività sulla base delle disposizioni del citato articolo  2 del DPCM dovranno farlo adeguando la propria struttura di “datore di lavoro” (anche esteso al “lavoro volontario”) al rispetto di norme importanti e (giustamente) rigorose, fra cui – ad esempio – la regolamentazione delle modalità di accesso (misurazione della  temperatura) per i lavoratori/volontari e per eventuali esterni (utenti ?), le procedure di pulizia e sanificazione costante degli ambienti, le precauzioni igieniche personali, i dispositivi di protezione individuale, la gestione degli spazi comuni, l’organizzazione aziendale di spostamenti interni, riunioni, e soprattutto l’adozione di misure di sorveglianza sanitaria (nomina del medico competente, visite periodiche, ecc.) per gli addetti. E, aspetto non trascurabile, con una responsabilità – anche penale – diretta in caso di mancata adozione o insufficienza di tale protocollo.

In ultimo segnaliamo una “raccomandazione” che il Decreto in analisi contiene. Quella di evitare l’uscita di casa, anche in questa fase, di persone maggiormente vulnerabili, come anziani, affetti da patologie croniche, persone con multimorbilità o in condizione di immunodeficienza. È un’indicazione che impatta in modo rilevante sul “parco” su cui si basa il volontariato italiano e della quale, seppure espressa in forma di semplice “raccomandazione”, non si può non tenere conto.

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