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Ogni singolo corpo è diverso in qualche modo. Abbraccia la tua individualità.

Il body shaming e il fat shaming sono paragonabili al bullismo, sia di persona che online. Questo termine si riferisce all’atto o alla pratica di giudicare negativamente qualcuno in base al suo aspetto fisico. In genere, le persone si vergognano del proprio corpo quando appaiono in sovrappeso o sottopeso o non si adattano alla visione della società che le vuole “magre e belle”. La nostra cultura ama l’ideologia di un corpo perfetto, che si tratti di carta stampata, film, televisione o online, vedere qualcuno che non si adatta ai modelli sociali stamponon è considerato accettabile per alcuni.

Il body shaming è diventato un problema per entrambi i sessi. Le persone prendono le proprie insicurezze e le indirizzano verso altre persone per sentirsi meglio con il proprio corpo. Nessuno sceglie il corpo che ha. Ognuno nasce in quel corpo senza scelta. Finché il proprio corpo è in salute, non dovrebbe importare il giudizio degli altri.

Mentre il body shaming è presente nella società da un po’ di tempo, Internet e le piattaforme di social media come Instagram, Facebook, Twitter e Snapchat lo hanno portato ai massimi storici. Con milioni di utenti che si iscrivono ogni giorno, le piattaforme social aprono la porta a individui e aziende per condividere aspettative irrealistiche di un corpo ideale. La tecnologia ha reso più facile concentrarsi sull’aspetto e ha lasciato il posto a una realtà virtuale che invita più frequentemente al body shaming e al bullismo.

  • Instagram è una delle reti di social media più utilizzate con oltre 200 milioni di utenti al giorno
  • Snapchat ha 161 milioni di utenti al giorno
  • Circa il 65,8% delle aziende statunitensi utilizza Twitter per scopi di marketing

Il “coraggio della tastiera” gioca un ruolo chiave nel fare commenti offensivi e sprezzanti nei confronti degli altri online. È facile far vergognare qualcuno quando si trova dietro uno schermo, facendolo sentire inadeguato. Pubblicare commenti che fanno vergognare il corpo a coloro che conoscono e non conoscono, fa sentire le persone come se non ci fossero ripercussioni per le loro parole.

L’idea che il fat shaming sia accettabile sembra essere in parte costruito sulla premessa che sicuramente incoraggerà una persona a perdere peso. Qualcuno deve fare qualcosa per spaventare queste persone e farle cambiare, anche se solo per il loro bene, giusto? Sbagliato. Il problema con questa linea di ragionamento è che è completamente imperfetta.

L’ascesa dei social media negli ultimi cinque anni ha solo esacerbato il problema del “Body Shaming”. La generazione di oggi non vede nulla di male nell’esprimere la propria opinione. Questo è vero, ma escludere chiunque abbia un fisico diverso da loro non va bene. Internet isola le persone dalle loro vittime anche sui social media, consentendo loro di pubblicare online commenti che non direbbero mai in faccia a una persona. Ad esempio, con l’avvicinarsi delle vacanze, ci sono buone probabilità che mangiare, bere e trascorrere del tempo con la famiglia siano in cima alla lista. Ma a volte questa può essere una combinazione tossica se hai un membro della famiglia che commenta sempre il tuo corpo.

Cos’è un “corpo perfetto”? Le riviste puntano i riflettori sulle ragazze magre e per la maggior parte non considerano le ragazze che non rispecchiano i canoni di bellezza prestabili. Questo per fare un quadro del “corpo perfetto”. Non è realistico. La società ha creato questa immagine che il “corpo perfetto” è un corpo che qualcuno deve avere o è escluso, il che significa che le persone vedono il loro corpo in modo negativo. “Se le persone imparano che tutti sono umani dentro, allora si renderanno conto che sono umani all’esterno e smetteranno di giudicare i corpi degli altri”, ha detto la matricola Tyler T.. Molte bambine iniziano presto a subire queste cattiverie a causa di persone che hanno aperto la bocca senza accendere le loro menti!

Le persone hanno una nozione precisa di “bellezza” che definisce gli standard di colore della pelle, dimensioni del corpo, lunghezza dei capelli o il tipo di vestiti che qualcuno dovrebbe o non dovrebbe indossare. Le persone sono sempre troppo magre, troppo grasse, troppo alte, troppo basse, troppo scure o troppo belle per la società, e questo ha ripercussioni che non si realizzano nella vita di tutti i giorni. “Stiamo commettendo un grosso errore concentrandoci sul peso e sulle dimensioni del corpo come metrica della salute e dell’apporto calorico desiderato”, avverte Catherine “Kate” Bell, psicologa della facoltà della Harvard Medical School. Dato che un bambino “può bere 25 bibite al giorno ed essere magro, un altro bambino può bere solo acqua ed essere più pesante”.

Non dovremmo vergognarci del corpo. Dovremmo motivarci, sostenerci e incoraggiarci a vicenda. Il body shaming è un problema che non verrà risolto a meno che tutti imparino ad accettare il proprio corpo e fino a quando le riviste smetteranno di perpetuare questo mito di un corpo perfetto.

L’Amore di sé è l’unico antidoto per Body Shaming. Basta essere l’unico TU.

“Diamo più spazio a tutti i corpi, diffondi l’amore”.

Amal Abughoush, Serviziocivilista di Vol.To

 

C’è ma non si vede: il lavoro di cura delle donne

Quando si analizzano i dati riguardanti l’occupazione femminile, non si può non tenere in considerazione il lavoro non retribuito.

Il lavoro non retribuito, nella forma di lavoro domestico e assistenza alle persone, grava soprattutto sulle spalle delle donne e rappresenta il principale ostacolo alla loro partecipazione al mercato del lavoro: la quantità di tempo dedicato a tale occupazione è un limite reale alle possibilità di accesso sia al lavoro retribuito sia a opportunità formative, rendendo quindi le donne soggette a povertà ed esclusione.

In Italia tuttora la scelta è tra maternità o carriera, due scelte distinte e difficilmente conciliabili, specie in assenza di condizioni economiche agiate alle spalle.

Le donne sopperiscono infatti alla carenza di servizi pubblici che possano garantire sostegno alle famiglie e sacrificano il loro tempo e le loro energie per il benessere della collettività.

Questa forma di welfare fatto in casa fa risparmiare allo Stato 395 miliardi: perché il lavoro di cura delle donne non è riconosciuto, è considerato predisposizione naturale ed è quindi gratuito.

Agli uomini non è richiesto lo stesso impegno: nel mondo il 42% delle donne non può lavorare perché impegnato nella cura di familiari anziani, bambini, disabili; solo il 6% degli uomini si trova nella medesima situazione.

Per gli uomini avere una famiglia e diventare genitori non si ripercuote in maniera altrettanto evidente sulla loro posizione nel mercato del lavoro, né sul tempo che possono dedicare allo stesso, considerato che il ricorso al part time è molto più diffuso tra le madri rispetto ai padri, con conseguenti limitazioni sul loro reddito.

Seppure fondamentale per il benessere umano e per l’economia, l’assistenza e la cura alla persona rimanga invisibile, non riconosciuta, ma soprattutto caratterizzata da un forte divario di genere.

Secondo l’Istat nel 2014 (ultimo anno disponibile per questa tipologia di dati) donne e uomini hanno svolto oltre 71,3 miliardi di ore di lavoro non retribuito per attività domestiche, cura di bambini, adulti e anziani, volontariato e per gli spostamenti legati allo svolgimento di tali attività, contro le 41,7 miliardi di ore di lavoro retribuito.

Il 71% delle ore di lavoro non retribuito, è stato svolto da donne e in quasi la metà dei casi da casalinghe. Ciò, sebbene le donne istruite siano sensibilmente maggiori degli uomini.

Le italiane sono al primo posto nell’Unione Europea per quantità di tempo speso nel lavoro di cura, con una media di 5 ore. Dati che si scontrano con quelli che riguardano gli uomini: gli uomini occupati dedicano 1 ora e 47 minuti al lavoro domestico e di cura non retribuito. Una percentuale che li posiziona all’ultimo posto insieme ai greci nella classifica del lavoro non retribuito nella Ue.

Le principali conseguenze di tale situazione sono due. La prima è il rischio povertà e cattiva salute a cui vanno incontro le donne a causa del carico di lavoro e del forte stress a cui sono sottoposte.

La seconda conseguenza ha a che fare con la mancanza di tempo per la propria formazione. Un articolo del Guardian ha messo in luce come storicamente, a causa delle responsabilità legate al lavoro domestico, le donne abbiano meno occasione per sviluppare i propri talenti, coltivare le proprie passioni e formarsi per migliorarsi nella professione.

Infine, cosa succede se invece si guarda al lavoro retribuito? Le cose non vanno meglio. Senza considerare tutto l’universo del lavoro in nero, in Italia solo il 53% della popolazione femminile ha un’occupazione (dati Eurostat).

Va attuata insomma una decisa inversione di marcia in un quadro normativo preciso che rispetti e promuova esigenze, ambizioni e talenti delle donne.

Questo andrebbe a beneficio dell’intera popolazione, in quanto si è stimato che, se la partecipazione femminile al mercato del lavoro si allineasse entro il 2030 a quella maschile, il Pil pro-capite aumenterebbe di circa 1% annuo.

Proprio nell’ottica di promuovere e avvicinarci al cambiamento, economisti e attivisti hanno elaborato il “quadro trasformativo delle 4R”, volto alla creazione di una società più equa. Attraverso quattro punti principali, che dovrebbero funzionare da bussola di orientamento per le politiche del lavoro future, si propone di:

  • riconoscereil lavoro di cura non retribuito e scarsamente retribuito come una forma di lavoro o di produzione con un valore reale;
  • ridurreil numero totale di ore dedicate alle attività di cura non retribuite; ciò è possibile grazie a un migliore accesso a dispositivi e infrastrutture di assistenza e di qualità che consentano di risparmiare tempo;
  • ridistribuirepiù equamente il lavoro di cura non retribuito all’interno della famiglia e contemporaneamente trasferirne la responsabilità allo Stato e al settore privato;
  • rappresentarei lavoratori più emarginati di questo settore e garantire che abbiano voce in capitolo nella progettazione e nella fornitura di politiche, servizi e sistemi che influenzano la loro vita.

L’emergenza Covid, con il suo contraccolpo sui posti di lavoro e con lo smart working, ha ulteriormente aggravato la condizione delle donne e rende ancora più impellente un intervento concreto per creare un equilibrio di genere e una nuova concezione del lavoro di cura.

Lorenza Ibba, serviziocivilista di Vol.To

#OnlineFaMaleUguale – George Floyd e le mille voci soffocate dal razzismo

George Floyd era un cittadino afroamericano di 46 anni, padre di due figlie, che viveva a Minneapolis, in Minnesota, nel Nord degli Stati Uniti. Tutto cominciò quando la sera del 25 Maggio, un commerciante fece una segnalazione su un uomo alto e di colore che aveva utilizzato – secondo una sua supposizione – una banconota da venti dollari falsa per acquistare un pacco di sigarette. Ciò ha comportato l’immediato intervento di quattro agenti, che una volta giunti sul posto lo hanno identificato. Secondo la ricostruzione dei poliziotti, G. Floyd oppose resistenza agli agenti che si videro quindi costretti a procedere con l’arresto. Floyd, che era disarmato, fu immobilizzato a terra a pancia in giù e con il volto girato verso destra.

La sua vita sarebbe finita 8 minuti e 46 secondi dopo. Come succede spesso, quando si tratta di cittadini afroamericani che vengono fermati dalla polizia, diversi passanti hanno iniziato a riprendere con il proprio smartphone la scena per documentare l’accaduto. Quello che ha permesso alla storia di George Floyd di diventare virale è che una di queste riprese sia stata trasmessa in diretta Facebook da un passante, permettendo al mondo di conoscere quanto accaduto. Il video in cui si sente la voce di Floyd implorante che grida “I can’t breath” è diventato virale, scuotendo le coscienze di milioni di cittadini in tutti gli Stati Uniti, provocando l’indignazione di chi crede ancora nella solidarietà e nell’equità.

Da quel momento “I can’t breath” è diventato un eco prepotente che risuona nelle voci di giovani, adulti e anziani per le strade e nelle piazze delle più grandi città per dire “BASTA”.

“Basta” perché purtroppo George Floyd è solo l’ultimo nome di una lunga lista di afroamericani uccisi da chi aveva il compito di difenderli.

“Basta” perché nel 2020 si palesa ancora la necessità di affrontare le ombre onnipresenti e preoccupanti dei razzismi, dell’odio e della discriminazione etnica.

Le proteste in relazione all’omicidio di George Floyd, sono frutto di sentimenti di insoddisfazione e di rabbia per un razzismo violento insito nella società americana: di fatti, secondo uno studio del Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America, periodico ufficiale della National Academy of Sciences (NAS), essere uccisi durante un arresto da parte di un agente di polizia rappresenta negli Usa la sesta causa di morte per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 29 anni appartenenti a qualsiasi gruppo etnico. Rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio. Inoltre, in base alle statistiche raccolte, risulta che un uomo o un ragazzo di colore ogni mille negli Stati Uniti, verrà ucciso da un agente di polizia nel corso della propria vita. Tali episodi sono la causa dell’1,6% di tutti i decessi di afroamericani tra i 20 e i 24 anni.

Eppure, una delle difficoltà maggiori per comprendere le reali dimensioni del fenomeno, è rappresentata dalla mancanza di dati affidabili e completi a livello federale. La realtà è che ci ritroviamo una società profondamente segnata da un “racial bias”, ovvero da un pregiudizio razziale nei confronti di tutti i diversi gruppi etnici che vivono nella società americana. George Floyd non è morto perché era un criminale, George Floyd è morto per il colore della sua pelle. E le proteste che continuano a riempire dopo mesi le strade delle città americane, rappresentano una presa di posizione nei confronti di questa violenza sistematica da parte dei corpi di polizia.

Ma la questione del valore delle vite dei nerinon è soltanto statunitense. Tra il 1° gennaio 2008 e il 31 Marzo 2020, i casi documentati di razzismo in Italia sono stati 7.426. Lo afferma l’ultimo “Libro bianco sul razzismo in Italia”, l’indagine pubblicata dall’associazione Lunariainsieme al sito “Cronache di ordinario razzismo”che ci informa inoltre che nel complesso il biennio 2018-2019 è stato il peggiore degli ultimi dieci anni. I dati più preoccupanti riguardano le 901 violenze fisiche contro le persone e i 177 danneggiamenti di beni o proprietà connessi alla presenza di cittadini stranieri. Un’altra fonte di riferimento per la raccolta dati su casi di discriminazione nel nostro Paese, è rappresentata dall’ UNAR(Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) che ci dice come nell’anno 2018 il 70,4% dei casi di discriminazione segnalati siano scaturiti da un movente etnico-razziale. È chiaro come i numeri riportati siano indice di un preoccupante problema sociale in aumento nel nostro Paese: i giovani scesi in piazza nelle settimane successive all’omicidio di George Floyd, sono consapevoli che il problema del razzismo in Italia è una questione di cui c’è ancora tanto bisogno di parlarne, perché l’Italia non è esente da colpe.

Lo raccontano le morti di Soumalia Sacko, bracciante e sindacalista morto per un colpo di fucile alla nuca nella piana di Gioia Tauro mentre cercava lamiere in un’ex fabbrica per costruire un riparo di fortuna destinato ad altri braccianti, o ancora di Adnan Sidiqque, assassinato per aver difeso i braccianti dai caporali a Caltanissetta. Ma anche fatti più recenti, come l’omicidio di Willy Monteiro Duerte,giovane ventunenne di origini capoverdiane, massacrato a calci e pugni nella notte tra il 5 e il 6 settembre. La sua unica colpa: prendere le difese di uno dei suoi amici. Le indagini sono ancora aperte, ma già si parla di movente razziale e di come i ragazzi colpevoli dell’aggressione già da tempo avessero dimostrato atteggiamenti xenofobi e violenti.

Il razzismo che pervade oggi il nostro Paese non è altro che il frutto di un’educazione e percezione sbagliata che ci viene trasmessa quotidianamente da notizie infondate o il più delle volte travisate, a causa di una comunicazione politica troppo estremista e da una diffusione radicalizzata di stereotipi. Non sono in pochi ad associare il colore della pelle di qualcuno al concetto di inferiorità, o ancora a identificare quel qualcuno come un possibile aggressore o qualcuno da sottomettere e maltrattare.

Per questo c’è ancora bisogno di parlare di razzismo e cercare il modo di prevenire episodi come questi. La cura al razzismo è l’educazione: essere consapevoli del nostro passato e del privilegio di cui abbiamo usufruito per secoli per il colore della nostra pelle, deve servire a essere più coscienti che la diversità non è una minaccia, ma una risorsa. L’educazione ci aiuta a liberare la mente dagli stereotipi, ci aiuta a cambiare la narrazione della società in cui viviamo e a costruire un’umanità più solidale.

Rebecca Viniello, Serviziocivilista di Vol.To

#OnlineFaMaleUguale – Il cyberbullismo nel mondo dei videogiochi

Bullismo, odio, discriminazione: sono fenomeni che ben si prestano ad ogni ambiente e contesto. Li ritroviamo nelle strade, in televisione, dentro ai negozi, nelle scuole, negli ambienti di lavoro. L’avvento di Internet, oltre a tante inedite opportunità, ha avuto come effetto collaterale quello di offrire nuovi terreni fertili al propagarsi di atteggiamenti offensivi e spesso anche propriamente violenti.

Quando si parla di cyberbullismo ci si concentra principalmente sugli episodi che si verificano sui social network, ma esiste un altro mondo virtuale altrettanto popolato e altrettanto rilevante quando si affronta il tema del cyberbullismo: il gaming online.

Se fino a pochi anni fa giocare ai videogiochi era un’attività che si poteva svolgere solo individualmente, ora è invece possibile sfidare o collaborare virtualmente con utenti sconosciuti che possono essere collegati da ogni parte del mondo. In questo modo i gamer interagiscono in diretta ma ciascuno da casa propria, con la possibilità di comunicare tra di loro attraverso delle semplici cuffiette ed un microfono.

Per chi è appassionato di sfide sulle auto, di “survival” o di “sparatutto” questa modalità offre sicuramente nuove e più stimolanti dinamiche di gioco. Parallelamente però apre anche la porta ad esperienze ben meno positive. Venir presi in giro dall’avversario per le proprie capacità di gioco, ricevere commenti a sfondo sessuale, venire insultati o persino minacciati. Questi sono solo alcuni esempi di ciò che può avvenire durante una partita ad un videogioco online. I risultati di un sondaggio condotto da Ditch the Label, una delle principali organizzazioni senza scopo di lucro che si occupano di bullismo, mostrano che il 57% dei gamer da loro intervistati è stato vittima di cyberbullismo proprio nel contesto delle partite online.

Questo dato ci dà sicuramente già un buon motivo per sostenere che sia necessario affrontare la questione, ma mi piacerebbe fare un’altra piccola riflessione al riguardo.

Abbiamo tutti un posto dove rifugiarci quando lo stress della giornata diventa eccessivo: alcuni di noi trovano questa serenità nelle pagine di un libro, altri in una sala prove o in un campo di basket, altri ancora nelle cuffie del telefono dal quale escono le note della loro playlist preferita. Io, per esempio, la trovo tra le piante del mio giardino.
Non so se leggendo queste righe la vostra mente sia andata a pensare a quello che voi considerate il vostro “rifugio”, ma se è così provate a immaginare che questo posto da medicina diventi veleno. Immaginate che qualcosa turbi quell’equilibrio trasformando un momento di svago di cui avevate estremamente bisogno in qualcosa che a sua volta vi provoca sofferenza. Per una significativa parte dei ragazzi e delle ragazze che sono vittima di bullismo nella vita reale, quel “rifugio” sono proprio i videogiochi. Secondo i dati di Ditch the Label una delle caratteristiche personali che rende più probabile che un adolescente giochi online è proprio l’aver subito esperienze di bullismo “offline”. Questo perché spesso il videogioco diventa una forma di fuga dallo stress generato da queste esperienze. Il mondo dei videogiochi online è quindi un ambiente particolarmente importante da tutelare, in quanto ospita molti di coloro che già sono segnati da queste esperienze. Se la medicina diventa essa stessa veleno, se le stesse pesanti dinamiche si verificano anche all’interno degli spazi che questi ragazzi e ragazze riescono a ritagliarsi dal bullismo, gli effetti negativi su di loro non possono far altro che venire amplificati.

Giulia Bocca, serviziocivilista di Vol.To

#OnlineFaMaleUguale – Progetto servizio civile di Vol.To

Molti progetti di servizio civile hanno deciso di rispondere all’emergenza sanitaria in atto rimodulando le proprie attività. Anche Vol.To ha deciso di adattare il progetto originale “Amare le differenze” alla nuova situazione trasformandone le modalità e i contenuti in versione digitale.

Inizialmente il progetto prevedeva un focus sulle varie forme di discriminazione con l’obiettivo di sensibilizzare gli studenti e le studentesse delle scuole superiori di Torino. Considerato che dall’inizio della quarantena è aumentata esponenzialmente la quantità di tempo trascorsa online e di conseguenza anche il rischio di divenire oggetto o talvolta anche autori di comportamenti offensivi, le civiliste del CSV Vol.To hanno deciso di spostare online il contenuto del progetto con lo scopo non solo di studiare il fenomeno del cyberbullismo, ma soprattutto di sensibilizzare più persone possibile su questa importante e attualissima tematica.

Nasce così #OnlineFaMaleUguale, la nuova campagna informativa sul cyberbullismo promossa dal Centro Servizi per il Volontariato. L’iniziativa è stata anche premiata con la menzione d’onore agli Eurodesk Awards 2021.

Il bullismo via Internet è un fenomeno sempre più diffuso e variegato. Oltre il 50% dei ragazzi tra gli 11 e 17 anni ha subito episodi di bullismo, e tra chi utilizza quotidianamente il cellulare (85,8%), ben il 22,2% riferisce di essere stato vittima di cyberbullismo. A ricordarlo è la Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps), in occasione della Giornata Nazionale contro il Bullismo e il Cyberbullismo che si celebra il 7 febbraio, e del Safer internet day che ricorre l’11 febbraio.

La violenza in rete fa più paura. Il cyberbullismo viene infatti percepito da 4 adolescenti su 10 (39,7%) come molto rischioso; al secondo posto c’è la paura di diventare bersaglio di trolling e di subire molestie online, con il 37,3%; la perdita della propria privacy è considerato un rischio dal 33,1% degli adolescenti.

Questa breve introduzione fa capire che di cyberbullismo bisogna parlare: è un fenomeno che va capito e affrontato, ai ragazzi vanno dati più strumenti possibili per affrontare la rete con consapevolezza e difendersi dagli abusi. Su questa pagina pubblichiamo tutti i contributi della campagna #OnlineFaMaleUguale.

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