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#OnlineFaMaleUguale Siamo tutti belli con i nostri corpi naturali

Il body shaming è una delle forme più gravi di bullismo, di molestia e di umiliazione. I social media svolgono un ruolo molto più importante di quello che la maggior parte delle persone pensa che abbia e ora, nel 21 ° secolo, sono ovunque. I social media sono una piattaforma sorprendente per connettersi con persone di tutto il mondo. Possiamo condividere ampiamente esperienze e opinioni ed esprimere idee. Ma ha anche un lato oscuro che richiede un approccio consapevole.

La maggior parte di noi è influenzato dal “body shaming”, un fenomeno diffuso sui social media in cui vengono inviati feedback crudeli quando il nostro corpo non corrisponde agli standard di bellezza irrealistici stabiliti dalla società nel tempo di oggi.

In tutto il mondo esiste una nozione di “bellezza” che definisce gli standard di colore della pelle, struttura del corpo, lunghezza e consistenza dei capelli e così via. Alle persone viene spesso detto che sono troppo magre, troppo grasse, troppo pallide, troppo alte, troppo basse, non abbastanza muscolose e l’elenco potrebbe continuare. La questione del body shaming colpisce tutti i gruppi della società indipendentemente da età, sesso, etnia, ma le preoccupazioni relative all’immagine del corpo colpiscono principalmente i giovani e gli adolescenti. Da questo aspetto, il body shaming influisce sulla salute mentale e fisica in modi sorprendenti, sia per la persona che giudica il corpo degli altri che per quella che subisce la vergogna del corpo.

Minaccia per la salute mentale sia dello shamer che della vittima
Ciò che i body shamers non capiscono è che questa pratica deriva da un problema con la loro prospettiva. Un body shamer può finire per criticare il proprio aspetto e avere difficoltà ad accettare il proprio corpo per quello che è. Ciò può portare a una bassa autostima e fiducia in se stessi e potrebbero dover pagare il prezzo per questo a causa di fallimenti professionali o personali. Allo stesso modo, quando si giudica il corpo di altre persone, la la vittima potrebbe credere alle loro osservazioni sul proprio corpo che potrebbero influenzarla a livello di autostima. Se il body shaming è troppo frequente o ha un impatto maggiore per qualsiasi motivo, può anche portare ad ansia, depressione e isolamento sociale. Le persone con ansia tendono a pensare troppo a tutto e quando si tratta di commenti sul proprio corpo, non è diverso. Le costanti osservazioni negative possono rendere le persone ansiose nella misura in cui soffrono di attacchi di panico e fasi di depressione.

Il body shaming può portare a disturbi alimentari
Questo giudizio del corpo può portare a disturbi alimentari tra le ragazze in età scolare media e superiore. Tre dei principali disturbi alimentari sono la bulimia nervosa, definita come un disturbo alimentare caratterizzato da alimentazione incontrollata seguita da eliminazione; l’anoressia è un disturbo alimentare caratterizzato da un peso ridotto e paura di ingrassare e il binge eating definito come un disturbo con episodi di consumo di grandi quantità di cibo con sensazione di perdita di controllo, che può anche portare alla successiva eliminazione, e ce ne sono molti altri (Disturbi Alimentari Nazionali). Gli effetti collaterali dell’anoressia possono portare a disidratazione, stitichezza, denutrizione, gonfiore e persino cicli mestruali irregolari. Si dice che anche la bulimia porti a effetti simili.

I social media colpiscono maggiormente le ragazze e le donne, ma non sono le uniche. Anche i ragazzi e gli uomini sono colpiti, ma non tanto quanto le donne, sebbene sentano anche loro gli effetti negativi dei social media. È stato dimostrato che dopo che alle donne sono state mostrate immagini mediatiche raffiguranti i moderni corpi magri ideali, le donne hanno avuto un aumento di ansia, depressione, rabbia e insoddisfazione per i loro corpi. I più forti predittori di un’immagine corporea negativa si pensa siano causati dalla mancanza di supporto dei genitori, stati d’animo e sentimenti negativi, anche dalla scelta di dieta e dalla mancanza di supporto da parte dei coetanei.

Non erano solo le donne di taglia media o più che si sentivano prese di mira, ma anche con l’emergere di frasi diverse sulle donne più formose nell’industria musicale, una donna con un lato di taglia più piccola potrebbe sentirsi a disagio essendo troppo magra, dicendo frasi come “Non hai mai mangiato? “,” Sei così magro, è salutare per te? ” e tante altre. Dobbiamo unirci con i nostri diversi tipi di corpo e imparare a ispirarci e educarci a vicenda. I media in generale dovrebbero tenerlo a mente perché non sanno mai come potrebbero influenzare negativamente qualcuno su come vedono il loro corpo.

C’è un malinteso secondo cui gli individui che giudicano il corpo altrui potrebbero aiutarli a motivarli a perdere peso. “Quando le persone si vergognano a causa del loro peso, è più probabile che evitino l’esercizio e consumino più calorie per far fronte a questo stress.” In uno studio pubblicato su Obesity, la rivista The Obesity Society, è emerso che le persone che stanno combattendo l’obesità devono affrontare gli stereotipi come pigre, incompetenti, poco attraenti, prive di forza di volontà e sono responsabili del proprio eccesso di peso. Il dolore di questi messaggi può avere un impatto sulla salute e aumentare il rischio di malattie cardiovascolari e metaboliche.

Se i social media provassero a iniziare a produrre una visione più positiva di diversi tipi di corpo, le donne si sentirebbero più a loro agio e sicure del loro aspetto. Credo che mescolare diversi tipi di corpo nelle sfilate o sulla copertina di una rivista sarebbe meglio per la società, per sviluppare più positività del corpo. Credo davvero che se fossimo perfetti e tutti uscissero dallo stesso stampo per sembrare modelli, saremmo solo dei robot. Personalmente quello che mi piace di più è avere qualcosa di diverso che nessun altro ha è ciò che ti rende quello che sei. Quindi, continua a sorridere per sempre, per favore!

Alla fine, le nostre imperfezioni ci rendono unici!

Amal Aboghouch

Do and don’t: una guida contro il bullismo

Il 5 Ottobre di ogni anno, ricorre la Giornata mondiale della prevenzione contro il bullismo. In quell’occasione, in linea con il contesto della nostra campagna #OnlineFaMaleUguale abbiamo realizzato una breve guida con le azioni da fare e da non fare quando si subiscono atti di questo tipo.

 

#SeLiConosciLiEviti

#OnlineFaMaleUguale ha lo scopo di mettere in evidenza quei comportamenti di violenza online a cui tutti siamo esposti, ma in modo più significativo i più giovani. Quando si parla di cyberbullismo, purtroppo si tende a sottovalutarne le conseguenze e si fa difficoltà a riconoscerne i comportamenti più caratterizzanti. Abbiamo scelto di parlare di questo fenomeno per poter approfondire e riflettere sulle diverse sfaccettature di questo problema. #SeLiConosciLiEviti raccoglie le definizioni di tutte quelle parole che identificano le diverse forme di cyberviolenza: saperle riconoscere ci aiuta a prevenirle e ad evitarle.

 

 

Indagine su cyberbullismo e odio online

All’interno del progetto #OnlineFaMaleUguale (per maggiori informazioni cliccare qui), è stato creato un questionario che abbiamo diffuso tramite la nostra pagina Facebook. Lo scopo era studiare nel dettaglio il fenomeno del cyberbullismo, ponendo particolare attenzione a come vengono percepite le diverse sfumature e varianti di odio online.

Di seguito vengono presentati i risultati dell’indagine condotta tra giugno e luglio 2020. Dopo aver presentato brevemente le caratteristiche socio-demografiche delle persone che hanno risposto al questionario, vengono riportati i risultati emersi rispetto a: uso dei social network, comportamenti offensivi online, percezione dell’odio online, idee circa le soluzioni per contrastare il cyberbullismo.

Le caratteristiche socio-demografiche del campione

Hanno risposto al questionario un totale di 153 persone provenienti da tutta Italia, ma principalmente dal Nord-Ovest (50%). La maggior parte delle risposte provengono da femmine e solo il 27% da maschi. Come è possibile vedere dal grafico sottostante, la maggior parte delle persone che hanno risposto ha un’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Questo dato è particolarmente importante ai fini dell’interpretazione dei risultati ottenuti: è necessario contestualizzare le risposte tra una generazione che ha dimestichezza con i social network e che ha una sensibilità più sviluppata rispetto a temi come discriminazione e bullismo.

Per conoscere meglio i rispondenti, abbiamo chiesto loro di indicare lo status occupazionale e il titolo di studio. In linea con i dati relativi all’età, la maggior parte del campione è costituito da studenti (41%), seguiti da un 31% di lavoratori. Per quanto riguarda il titolo di studio, il 41% è laureato, il 38% ha conseguito il diploma e la restante parte ha un titolo inferiore.

L’utilizzo dei social network

Una parte del questionario è stata dedicata all’utilizzo che le persone fanno dei social network. Una delle domande a cui si voleva trovare risposta era relativa a quali social network il rispondente utilizza abitualmente (accedendovi cioè almeno una volta ogni due giorni). Dall’analisi delle risposte si è potuto rilevare quali sono quelli più utilizzati e il numero di social utilizzati mediamente da ciascun individuo. A seconda dell’età del rispondente la risposta a queste domande cambia. Per quanto riguarda il social più utilizzato, per esempio, Instagram risulta essere il preferito degli under 20, Facebook quello di coloro che hanno tra i 20 e i 30 anni, mentre gli over 30 usano più spesso Telegram.

 

Passando alla quantità di social utilizzati regolarmente, vediamo una rilevante diminuzione del numero all’aumentare dell’età del rispondente.

I comportamenti offensivi sui social network

Entrando nel vivo del tema indagato, vediamo quanto sono diffusi vari tipi di comportamento classificabile come “odio online” o come vero e proprio cyberbullismo. Nello specifico, abbiamo chiesto ai partecipanti di indicarci, per ciascuna delle situazioni proposte, se gli fosse mai capitato di compiere o di subire tali azioni.

Come riportato nel grafico riportato sopra, molti rispondenti hanno ricevuto commenti a sfondo sessuale sui social network e hanno visto condividere una loro foto su queste piattaforme senza che ne avessero dato il consenso (entrambe le situazioni sono state subite dal 48% dei partecipanti). Meno diffuso, ma con percentuali comunque alte rispetto alla sua gravità (10%), sembra essere il subire minacce online.

Per quanto riguarda le azioni che i rispondenti hanno dichiarato di aver compiuto, vediamo delle percentuali notevolmente più basse in corrispondenza degli stessi comportamenti. In questo caso, risulta più diffuso l’aver escluso intenzionalmente qualcuno da chat di gruppo (26%) e l’aver messo “mi piace” a post contenenti offese nei confronti di una persona (24%).

Percezione delle manifestazioni di odio online

Come anticipato, il nucleo del questionario era incentrato sull’analisi della percezione che le persone hanno circa le varie sfumature di odio online. L’obiettivo era quello di rilevare se anche manifestazioni meno esplicite di discriminazione e odio online vengono percepite come tali.

Molto diffuso sui social è l’utilizzo dei cosiddetti meme, ovvero delle immagini accompagnate da commenti scritti (sovrapposti all’immagine stessa) create allo scopo di suscitare ilarità.

Questo strumento risulta avere talvolta un contenuto più o meno esplicitamente discriminatorio. Essendo questo però mascherato dall’ironia, non è sempre facile identificarlo come tale. Per questo motivo, all’interno del nostro questionario sono stati inseriti 5 diversi meme, creati appositamente per rappresentare 5 diversi tipi di discriminazione o stereotipo (misoginia, razzismo, discriminazione religiosa, transfobia e body shaming).

Ai partecipanti è stato chiesto di indicare quanto considerassero offensivo ciascuno dei meme presentati. Dai risultati aggregati è emersa questa classifica. Riportiamo di seguito i meme proposti nell’ordine della classifica emersa.

È importante sottolineare che mediamente i meme sono stati considerati tutti abbastanza gravi. È comunque emersa una chiara classifica dai dati aggregati che evidenzia come alcuni temi siano più sentiti di altri. Nell’ordine, il meme a contenuto misogino è stato considerato dalla maggior parte dei rispondenti il più offensivo, seguito, in ordine di offensività, da quello a contenuto discriminatorio nei confronti della religione islamica, quello relativo al body shaming, a contenuto transfobico e razziale.

Diverse sfumature di gravità possono essere percepite non solo in base allo strumento che veicola la discriminazione ma anche al soggetto che subisce l’azione. Questa è l’idea che abbiamo voluto verificare all’interno del nostro campione. Abbiamo infatti chiesto ai rispondenti di indicarci quanto considerassero offensivi 10 diversi comportamenti e, tra questi abbiamo inserito quattro volte uno stesso comportamento cambiando solamente il soggetto verso il quale era rivolto.

Condividere una foto su un gruppo whatsapp senza il consenso del soggetto (con il chiaro intento di deriderlo), è considerato più o meno grave se quest’ultimo è un compagno di classe, un collega di lavoro, un professore o il titolare/ responsabile dell’attività? 

Per i nostri rispondenti la risposta a questa domanda è affermativa.

Dai nostri risultati emerge infatti che, pur considerando gravi tutte 4 quattro queste le situazioni, ci sono delle differenze a seconda di chi viene preso di mira.

Un’offesa a figure come il titolare nel contesto lavorativo e il professore nel contesto scolastico sono percepite come meno gravi, rispetto allo stesso gesto compiuto contro un collega o un compagno di scuola. Questo dato potrebbe in parte ricollegarsi alla giovane età delle persone che hanno risposto al questionario (per la gran parte tra i 20 e 30 anni) e la conseguente maggior facilità di immedesimarsi più con queste figure o di percepirle come più deboli. 

Strumenti di contrasto

Abbiamo infine chiesto ai partecipanti quale misura ritenessero potesse essere più efficace per contrastare il cyberbullismo. Tra le risposte ottenute sono stati individuati cinque tipi di soluzione a cui possono essere ricondotte tutte le idee raccolte. 

Tecnologica: rientrano in questa fattispecie tutte le soluzioni che chiamano direttamente in causa il funzionamento dei social network e le limitazioni che dovrebbero imporre agli utentiIl 39% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

educativa: rientrano in questo tipo di soluzione tutte le proposte riguardanti programmi di sensibilizzazione al fenomeno da avviare, per molti rispondenti, fin dai primi anni scolastici. Il 30% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

punitiva: rientrano in questa fattispecie tutte le soluzioni che prevedono l’impiego di sanzioni più o meno severe a seconda della gravità del gesto compito. L’ 11% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

psicologica: rientrano in questa fattispecie tutte le proposte incentrate sull’analisi più profonda delle difficoltà personali che possono esserci a monte degli atteggiamenti violenti dei cyberbulli ma anche sul incentivare il supporto psicologico per chi ne è vittima. L’8% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

empatica: rientrano in quest’ultimo tipo di soluzione tutte le risposte incentrate sull’importanza dello sviluppo della capacità individuale di mettersi nei panni degli altri. Il 12% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

 

Indagine su cyberbullismo e odio online

All’interno del progetto #OnlineFaMaleUguale (per maggiori informazioni cliccare qui), è stato creato un questionario che abbiamo diffuso tramite la nostra pagina Facebook. Lo scopo era studiare nel dettaglio il fenomeno del cyberbullismo, ponendo particolare attenzione a come vengono percepite le diverse sfumature e varianti di odio online.

Di seguito vengono presentati i risultati dell’indagine condotta tra giugno e luglio 2020. Dopo aver presentato brevemente le caratteristiche socio-demografiche delle persone che hanno risposto al questionario, vengono riportati i risultati emersi rispetto a: uso dei social network, comportamenti offensivi online, percezione dell’odio online, idee circa le soluzioni per contrastare il cyberbullismo.

Le caratteristiche socio-demografiche del campione

Hanno risposto al questionario un totale di 153 persone provenienti da tutta Italia, ma principalmente dal Nord-Ovest (50%). La maggior parte delle risposte provengono da femmine e solo il 27% da maschi. Come è possibile vedere dal grafico sottostante, la maggior parte delle persone che hanno risposto ha un’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Questo dato è particolarmente importante ai fini dell’interpretazione dei risultati ottenuti: è necessario contestualizzare le risposte tra una generazione che ha dimestichezza con i social network e che ha una sensibilità più sviluppata rispetto a temi come discriminazione e bullismo.

Per conoscere meglio i rispondenti, abbiamo chiesto loro di indicare lo status occupazionale e il titolo di studio. In linea con i dati relativi all’età, la maggior parte del campione è costituito da studenti (41%), seguiti da un 31% di lavoratori. Per quanto riguarda il titolo di studio, il 41% è laureato, il 38% ha conseguito il diploma e la restante parte ha un titolo inferiore.

L’utilizzo dei social network

Una parte del questionario è stata dedicata all’utilizzo che le persone fanno dei social network. Una delle domande a cui si voleva trovare risposta era relativa a quali social network il rispondente utilizza abitualmente (accedendovi cioè almeno una volta ogni due giorni). Dall’analisi delle risposte si è potuto rilevare quali sono quelli più utilizzati e il numero di social utilizzati mediamente da ciascun individuo. A seconda dell’età del rispondente la risposta a queste domande cambia. Per quanto riguarda il social più utilizzato, per esempio, Instagram risulta essere il preferito degli under 20, Facebook quello di coloro che hanno tra i 20 e i 30 anni, mentre gli over 30 usano più spesso Telegram.

 

Passando alla quantità di social utilizzati regolarmente, vediamo una rilevante diminuzione del numero all’aumentare dell’età del rispondente.

I comportamenti offensivi sui social network

Entrando nel vivo del tema indagato, vediamo quanto sono diffusi vari tipi di comportamento classificabile come “odio online” o come vero e proprio cyberbullismo. Nello specifico, abbiamo chiesto ai partecipanti di indicarci, per ciascuna delle situazioni proposte, se gli fosse mai capitato di compiere o di subire tali azioni.

Come riportato nel grafico riportato sopra, molti rispondenti hanno ricevuto commenti a sfondo sessuale sui social network e hanno visto condividere una loro foto su queste piattaforme senza che ne avessero dato il consenso (entrambe le situazioni sono state subite dal 48% dei partecipanti). Meno diffuso, ma con percentuali comunque alte rispetto alla sua gravità (10%), sembra essere il subire minacce online.

Per quanto riguarda le azioni che i rispondenti hanno dichiarato di aver compiuto, vediamo delle percentuali notevolmente più basse in corrispondenza degli stessi comportamenti. In questo caso, risulta più diffuso l’aver escluso intenzionalmente qualcuno da chat di gruppo (26%) e l’aver messo “mi piace” a post contenenti offese nei confronti di una persona (24%).

Percezione delle manifestazioni di odio online

Come anticipato, il nucleo del questionario era incentrato sull’analisi della percezione che le persone hanno circa le varie sfumature di odio online. L’obiettivo era quello di rilevare se anche manifestazioni meno esplicite di discriminazione e odio online vengono percepite come tali.

Molto diffuso sui social è l’utilizzo dei cosiddetti meme, ovvero delle immagini accompagnate da commenti scritti (sovrapposti all’immagine stessa) create allo scopo di suscitare ilarità.

Questo strumento risulta avere talvolta un contenuto più o meno esplicitamente discriminatorio. Essendo questo però mascherato dall’ironia, non è sempre facile identificarlo come tale. Per questo motivo, all’interno del nostro questionario sono stati inseriti 5 diversi meme, creati appositamente per rappresentare 5 diversi tipi di discriminazione o stereotipo (misoginia, razzismo, discriminazione religiosa, transfobia e body shaming).

Ai partecipanti è stato chiesto di indicare quanto considerassero offensivo ciascuno dei meme presentati. Dai risultati aggregati è emersa questa classifica. Riportiamo di seguito i meme proposti nell’ordine della classifica emersa.

È importante sottolineare che mediamente i meme sono stati considerati tutti abbastanza gravi. È comunque emersa una chiara classifica dai dati aggregati che evidenzia come alcuni temi siano più sentiti di altri. Nell’ordine, il meme a contenuto misogino è stato considerato dalla maggior parte dei rispondenti il più offensivo, seguito, in ordine di offensività, da quello a contenuto discriminatorio nei confronti della religione islamica, quello relativo al body shaming, a contenuto transfobico e razziale.

Diverse sfumature di gravità possono essere percepite non solo in base allo strumento che veicola la discriminazione ma anche al soggetto che subisce l’azione. Questa è l’idea che abbiamo voluto verificare all’interno del nostro campione. Abbiamo infatti chiesto ai rispondenti di indicarci quanto considerassero offensivi 10 diversi comportamenti e, tra questi abbiamo inserito quattro volte uno stesso comportamento cambiando solamente il soggetto verso il quale era rivolto.

Condividere una foto su un gruppo whatsapp senza il consenso del soggetto (con il chiaro intento di deriderlo), è considerato più o meno grave se quest’ultimo è un compagno di classe, un collega di lavoro, un professore o il titolare/ responsabile dell’attività? 

Per i nostri rispondenti la risposta a questa domanda è affermativa.

Dai nostri risultati emerge infatti che, pur considerando gravi tutte 4 quattro queste le situazioni, ci sono delle differenze a seconda di chi viene preso di mira.

Un’offesa a figure come il titolare nel contesto lavorativo e il professore nel contesto scolastico sono percepite come meno gravi, rispetto allo stesso gesto compiuto contro un collega o un compagno di scuola. Questo dato potrebbe in parte ricollegarsi alla giovane età delle persone che hanno risposto al questionario (per la gran parte tra i 20 e 30 anni) e la conseguente maggior facilità di immedesimarsi più con queste figure o di percepirle come più deboli. 

Strumenti di contrasto

Abbiamo infine chiesto ai partecipanti quale misura ritenessero potesse essere più efficace per contrastare il cyberbullismo. Tra le risposte ottenute sono stati individuati cinque tipi di soluzione a cui possono essere ricondotte tutte le idee raccolte. 

Tecnologica: rientrano in questa fattispecie tutte le soluzioni che chiamano direttamente in causa il funzionamento dei social network e le limitazioni che dovrebbero imporre agli utentiIl 39% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

educativa: rientrano in questo tipo di soluzione tutte le proposte riguardanti programmi di sensibilizzazione al fenomeno da avviare, per molti rispondenti, fin dai primi anni scolastici. Il 30% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

punitiva: rientrano in questa fattispecie tutte le soluzioni che prevedono l’impiego di sanzioni più o meno severe a seconda della gravità del gesto compito. L’ 11% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

psicologica: rientrano in questa fattispecie tutte le proposte incentrate sull’analisi più profonda delle difficoltà personali che possono esserci a monte degli atteggiamenti violenti dei cyberbulli ma anche sul incentivare il supporto psicologico per chi ne è vittima. L’8% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

empatica: rientrano in quest’ultimo tipo di soluzione tutte le risposte incentrate sull’importanza dello sviluppo della capacità individuale di mettersi nei panni degli altri. Il 12% dei partecipanti ha fornito una soluzione ascrivibile a questa categoria.

 

#OnlineFaMaleUguale, il binomio pandemia-razzismo

La paura per il diffondersi del Covid-19 ha provocato una serie di episodi in Italia e nel mondo che nulla hanno a che fare con il contagio, ma che rientrano più banalmente in episodi di razzismo. Insulti, divieti ed episodi di discriminazione sono stati rivolti già ad inizio pandemia nei confronti di chiunque avesse dei tratti orientali, quando ancora si navigava nell’ignoranza e si associava questo virus ad un popolo e paese ben preciso da cui si presume sia partito il tutto. Spiacevolmente per tutti, il virus ha poi iniziato a diffondersi anche fuori dalla regione asiatica, incontrando terreno fertile in America Latina, negli Stati Uniti ma soprattutto tra la popolazione dei diversi Paesi Europei, che hanno dovuto riorganizzare i loro sistemi sanitari e attuare severi lock-down per contenere quella che si preannunciava fosse una tragedia.

Ma la paura per il corona virus ha alimentato un po’ ovunque e con declinazioni differenti uno dei peggiori effetti collaterali di questa pandemia: il razzismo e le discriminazioni di vario genere, nei confronti dei più deboli, nei confronti delle minoranze, nei confronti degli stranieri. Negli ultimi mesi diverse sono state le affermazioni che vedevano associati stranieri, per lo più migranti a possibili minacce legate alla sicurezza sanitaria nazionale. Considerazioni di questo tipo non possono che alimentare paura e diffondere pensieri d’odio, il tutto in un momento in cui invece dobbiamo tutti essere cauti con quanto si dice e non lasciarci sopraffare dal vizio antichissimo di trovare a tutti i costi un capro espiatorio.

Per quanto riguarda proprio questa narrazione che si è creata intorno ai migranti, diversi esperti come medici ed epidemiologhi che lavorano direttamente sul campo, lì dove decine e decine di persone arrivano in cerca di un porto sicuro, hanno ribadito come la situazione sanitaria degli stranieri arrivati via mare sia sempre stata sotto controllo. “Tra chi è arrivato regolarmente e quanti sono sbarcati autonomamente la percentuale dei positivi è circa dell’1,5 per cento”, afferma Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi, e per di più è assicurato che la gran parte dei migranti arrivati nelle ultime settimane in Italia via mare, anche in maniera autonoma, è sempre stato sottoposto al tampone naso-faringeo per il coronavirus ed è risultata negativa. L’epidemiologo Massimo Galliin un’intervista ha confermato che i migranti irregolari sono al momento “le persone più controllate”. Aggiungendo che invece bisognerebbe “controllare meglio i viaggiatori intercontinentali che arrivano dalle zone in cui l’epidemia ancora imperversa”. Anche l’epidemiologo Pier Luigi Lopalcoha detto che “l’ultimo problema nel controllo della pandemia di covid-19 sono i barconi di disperati che arrivano sulle coste italiane”. Ma spesso è più facile far finta di non ascoltare invece che ricredersi e informarsi su come stiano realmente le cose, soprattutto in una situazione come l’emergenza sanitaria che stiamo affrontando.

Il binomio pandemia-razzismonon si è diffuso però solo in Italia ma anche negli Stati Uniti, dove nei mesi scorsi si è verificata l’ondata di proteste più partecipata di tutta la storia del paese. Le proteste degli ultimi mesi hanno contribuito a dividere un Paese già profondamente diviso per questioni politiche, in un anno difficile per tutti ma soprattutto per gli Stati Uniti che per mesi ha detenuto il primato del maggior numero di contagi al giorno. Nel Paese più duramente colpito da questo virus, le divisioni sociali si rispecchiano anche nell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, enfatizzando le differenze tra etnie ed estrazione sociale.

Secondo il magazine Vita,un’analisi del Washington Post, realizzata con i dati provenienti dai vari Stati, sottolinea come la pandemia stia uccidendo molte più persone nella popolazione afroamericana. Secondo quest’analisi, due sono i casi simbolo: a Milwaukee, la città più grande del Wisconsin, il 70 per cento dei morti è afroamericano, nonostante la comunità nera rappresenti solo il 26 per cento della popolazione;stessa percentuale per la Louisiana, con il 70 per cento dei morti che appartengono alla comunità nera, che forma il 32 per cento dei residenti. Secondo i ricercatori del “The New England Journal of Medicine, negli Stati Uniti le minoranze afroamericane e i gruppi ispanici, hanno in generale meno probabilità di avere un’assicurazione sanitaria, e di conseguenza soffrono di una riduzione dell’accesso e all’uso dell’assistenza sanitaria. Anche la comunicazione relativa alla salute pubblica, alla diagnosi precoce e al trattamento della COVID-19 tra le minoranze etniche, secondo i ricercatori, è risultata essere meno efficace, ritardando così i tempi d’intervento. Senza contare che spesso molte delle persone appartenenti a minoranze etniche, svolgono lavori essenziali nel settore sanitario e sociale, nella vendita al dettaglio, nei trasporti pubblici e in altri settori in prima linea a forte rischio di essere esposti al COVID-19; e proprio queste persone sono concentrate in aree urbane sovraffollate e in luoghi di lavoro, le cui condizioni possono rendere difficile l’allontanamento fisico e l’auto isolamento, con conseguente aumento dei rischi per la diffusione di COVID-19.

Alla base di questo tasso di mortalità “stranamente” alto vi è dunque una forte disuguaglianza sociale ed economica, che si fa sentire ora più che mai: perché se è vero che i soldi non fanno la felicità e non evitano la morte, è altrettanto vero che vivere in una condizione economica un po’ più agiata, permette di avere accesso a una migliore assicurazione sanitaria  (nel caso degli Stati Uniti) e ad avere la possibilità di arrivare a fine mese senza dover fare i conti con la fame e le bollette da pagare.

Rebecca Viniello, servizio civilista di Vol.To

Console vs Cyberbullismo: quali strumenti per difendersi

Qualche settimana fa abbiamo parlato dei rischi connessi al mondo del gaming online. Si è visto come le console di ultima generazione consentano non solo di giocare insieme o contro utenti connessi da qualsiasi parte del mondo, ma anche di inviare messaggi e condividere foto e video con altri giocatori. A causa della difficoltà di controllare questo ambiente virtuale, i videogiochi online sono diventati il luogo ideale per varie forme di crimine, tra le quali spicca il cyberbullismo. Le chat, le giocate live, l’interazione facilitata e la modalità collaborativa dei giochi, fanno sì che si possa entrare in contatto con tantissime persone di cui non si conosce l’identità.

Le forme di cyberbullismo più diffuse nel mondo dei videogiochi sono i cosiddetti flaminge trolling, ovvero messaggi violenti o volutamente provocatori, al fine di suscitare vere e proprie battaglie verbali, tra due o più soggetti – flaming– o con il semplice obiettivo di irritare e prendere in giro l’interlocutore – nel caso del trolling.

Le diverse console presenti in commercio stanno in qualche modo cercando di arginare questo rilevante problema, rendendo disponibili per l’utente una serie di strumenti di “difesa”. La prima forma di tutela è quella rivolta ai più piccini: attraverso lo strumento del Parental Control è infatti possibile, per i genitori, gestire le attività a cui possono accedere i figli. È possibile per esempio impostare limiti di età per l’utilizzo di alcuni giochi scaricabili dal network della console, impedire l’utilizzo delle chat e impostare tempi massimi di gioco. In questo modo è possibile limitare l’esposizione a contesti a rischio per i soggetti più vulnerabili. Ai seguenti link è possibile trovare le guide per l’utilizzo del Parental Control su Playstatione X-box).

Ai più piccolini è anche dedicata un’apposita pagina del sito di Playstation in cui vengono spiegati in modo chiaro e semplice i rischi e le regole che è importante seguire durante l’utilizzo della console.

Per i giocatori più grandi, vengono messi a disposizione una serie di strumenti per segnalare e denunciare eventuali messaggi offensivi ricevuti o, in generale, comportamenti che violano il codice di condotta. Secondo quanto dichiarato da Playstation e Xbox, ogni singola segnalazione ricevuta viene esaminata da un moderatore umano esperto della lingua e della cultura del giocatore il cui contenuto è stato segnalato.

Ricevute e verificate le segnalazioni, i moderatori possono decidere di prendere una serie di misure contro gli autori di queste azioni. In caso di violazioni del codice, viene avviata una sospensione temporanea o definitiva dell’account del giocatore multato (che non potrà quindi usare il suo profilo, perdendo i progressi fatti nei vari giochi). In caso di gravi violazioni è possibile anche impedire l’accesso dell’utente direttamente alla console (che non potrà quindi più utilizzarla).

Mentre si attende che una segnalazione venga esaminata, è possibile bloccare la persona che ha usato un comportamento scorretto nei nostri confronti, in modo tale che non sia più in grado di comunicare con noi.

Dalla loro nascita, le console per videogiochi hanno pian piano sviluppato strumenti sempre più sofisticati per garantire la tutela dei giocatori e ogni anno si impegnano pubblicamente per aumentarne le risorse spese a tal fine. In questa continua “battaglia” tra loro e il cyberbullismo è ovviamente importante che anche i singoli utenti facciano la propria parte: non soltanto non mettendo in atto loro stessi comportamenti offensivi, ma utilizzando gli strumenti che vengono messi a disposizione per segnalare situazioni negative anche se non ne sono dirette vittime ma solo spettatori.

 

Giulia Bocca, servizio civilista di Vol.To

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