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#OnlineFaMaleUguale – George Floyd e le mille voci soffocate dal razzismo

George Floyd era un cittadino afroamericano di 46 anni, padre di due figlie, che viveva a Minneapolis, in Minnesota, nel Nord degli Stati Uniti. Tutto cominciò quando la sera del 25 Maggio, un commerciante fece una segnalazione su un uomo alto e di colore che aveva utilizzato – secondo una sua supposizione – una banconota da venti dollari falsa per acquistare un pacco di sigarette. Ciò ha comportato l’immediato intervento di quattro agenti, che una volta giunti sul posto lo hanno identificato. Secondo la ricostruzione dei poliziotti, G. Floyd oppose resistenza agli agenti che si videro quindi costretti a procedere con l’arresto. Floyd, che era disarmato, fu immobilizzato a terra a pancia in giù e con il volto girato verso destra.

La sua vita sarebbe finita 8 minuti e 46 secondi dopo. Come succede spesso, quando si tratta di cittadini afroamericani che vengono fermati dalla polizia, diversi passanti hanno iniziato a riprendere con il proprio smartphone la scena per documentare l’accaduto. Quello che ha permesso alla storia di George Floyd di diventare virale è che una di queste riprese sia stata trasmessa in diretta Facebook da un passante, permettendo al mondo di conoscere quanto accaduto. Il video in cui si sente la voce di Floyd implorante che grida “I can’t breath” è diventato virale, scuotendo le coscienze di milioni di cittadini in tutti gli Stati Uniti, provocando l’indignazione di chi crede ancora nella solidarietà e nell’equità.

Da quel momento “I can’t breath” è diventato un eco prepotente che risuona nelle voci di giovani, adulti e anziani per le strade e nelle piazze delle più grandi città per dire “BASTA”.

“Basta” perché purtroppo George Floyd è solo l’ultimo nome di una lunga lista di afroamericani uccisi da chi aveva il compito di difenderli.

“Basta” perché nel 2020 si palesa ancora la necessità di affrontare le ombre onnipresenti e preoccupanti dei razzismi, dell’odio e della discriminazione etnica.

Le proteste in relazione all’omicidio di George Floyd, sono frutto di sentimenti di insoddisfazione e di rabbia per un razzismo violento insito nella società americana: di fatti, secondo uno studio del Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America, periodico ufficiale della National Academy of Sciences (NAS), essere uccisi durante un arresto da parte di un agente di polizia rappresenta negli Usa la sesta causa di morte per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 29 anni appartenenti a qualsiasi gruppo etnico. Rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio. Inoltre, in base alle statistiche raccolte, risulta che un uomo o un ragazzo di colore ogni mille negli Stati Uniti, verrà ucciso da un agente di polizia nel corso della propria vita. Tali episodi sono la causa dell’1,6% di tutti i decessi di afroamericani tra i 20 e i 24 anni.

Eppure, una delle difficoltà maggiori per comprendere le reali dimensioni del fenomeno, è rappresentata dalla mancanza di dati affidabili e completi a livello federale. La realtà è che ci ritroviamo una società profondamente segnata da un “racial bias”, ovvero da un pregiudizio razziale nei confronti di tutti i diversi gruppi etnici che vivono nella società americana. George Floyd non è morto perché era un criminale, George Floyd è morto per il colore della sua pelle. E le proteste che continuano a riempire dopo mesi le strade delle città americane, rappresentano una presa di posizione nei confronti di questa violenza sistematica da parte dei corpi di polizia.

Ma la questione del valore delle vite dei nerinon è soltanto statunitense. Tra il 1° gennaio 2008 e il 31 Marzo 2020, i casi documentati di razzismo in Italia sono stati 7.426. Lo afferma l’ultimo “Libro bianco sul razzismo in Italia”, l’indagine pubblicata dall’associazione Lunariainsieme al sito “Cronache di ordinario razzismo”che ci informa inoltre che nel complesso il biennio 2018-2019 è stato il peggiore degli ultimi dieci anni. I dati più preoccupanti riguardano le 901 violenze fisiche contro le persone e i 177 danneggiamenti di beni o proprietà connessi alla presenza di cittadini stranieri. Un’altra fonte di riferimento per la raccolta dati su casi di discriminazione nel nostro Paese, è rappresentata dall’ UNAR(Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) che ci dice come nell’anno 2018 il 70,4% dei casi di discriminazione segnalati siano scaturiti da un movente etnico-razziale. È chiaro come i numeri riportati siano indice di un preoccupante problema sociale in aumento nel nostro Paese: i giovani scesi in piazza nelle settimane successive all’omicidio di George Floyd, sono consapevoli che il problema del razzismo in Italia è una questione di cui c’è ancora tanto bisogno di parlarne, perché l’Italia non è esente da colpe.

Lo raccontano le morti di Soumalia Sacko, bracciante e sindacalista morto per un colpo di fucile alla nuca nella piana di Gioia Tauro mentre cercava lamiere in un’ex fabbrica per costruire un riparo di fortuna destinato ad altri braccianti, o ancora di Adnan Sidiqque, assassinato per aver difeso i braccianti dai caporali a Caltanissetta. Ma anche fatti più recenti, come l’omicidio di Willy Monteiro Duerte,giovane ventunenne di origini capoverdiane, massacrato a calci e pugni nella notte tra il 5 e il 6 settembre. La sua unica colpa: prendere le difese di uno dei suoi amici. Le indagini sono ancora aperte, ma già si parla di movente razziale e di come i ragazzi colpevoli dell’aggressione già da tempo avessero dimostrato atteggiamenti xenofobi e violenti.

Il razzismo che pervade oggi il nostro Paese non è altro che il frutto di un’educazione e percezione sbagliata che ci viene trasmessa quotidianamente da notizie infondate o il più delle volte travisate, a causa di una comunicazione politica troppo estremista e da una diffusione radicalizzata di stereotipi. Non sono in pochi ad associare il colore della pelle di qualcuno al concetto di inferiorità, o ancora a identificare quel qualcuno come un possibile aggressore o qualcuno da sottomettere e maltrattare.

Per questo c’è ancora bisogno di parlare di razzismo e cercare il modo di prevenire episodi come questi. La cura al razzismo è l’educazione: essere consapevoli del nostro passato e del privilegio di cui abbiamo usufruito per secoli per il colore della nostra pelle, deve servire a essere più coscienti che la diversità non è una minaccia, ma una risorsa. L’educazione ci aiuta a liberare la mente dagli stereotipi, ci aiuta a cambiare la narrazione della società in cui viviamo e a costruire un’umanità più solidale.

Rebecca Viniello, Serviziocivilista di Vol.To